Commento al NO al referendum sulla responsabilità dei magistrati – Avv. Angelo Di Lorenzo

Inesorabile è arrivata la prima stoccata di una politica costituzionale annunciata, e oramai l’inevitabile si avvicina.

Un altro segnale dell’inquinamento ambientale che affligge gli organi apicali della Magistratura lo da la sentenza n. 49 depositata il 2 marzo 2022 con cui la Corte Costituzionale, presidenza Amato, ha dichiarato inammissibile il referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati promosso da nove Consigli regionali italiani.

Per comprendere la circolarità autocelebrativa dei motivi della bocciatura è necessario conoscere a grandi linee la questione dibattuta.

Partendo dal presupposto che il magistrato è un impiegato dello Stato, l’art. 28 Cost. stabilisce la diretta responsabilità civile, penale e amministrativa dei dipendenti pubblici, come peraltro la prevede il D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato).

Per chi non lo sapesse, poi, il codice di procedura civile, agli articoli 55, 56 e 74, assoggettava la responsabilità diretta del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni a particolari limitazioni (non ultima l’autorizzazione del ministro) le quali, in seguito ai gravi errori giudiziari degli anni ’80 (il caso Tortora il più eclatante), venivano abrogate dalla volontà popolare con il referendum del 1987, all’esito del quale il popolo aveva scelto di eliminare le restrizioni all’azione diretta contro i magistrati per la tutela dei diritti dei danneggiati dal malgoverno della funzione giudiziaria.

In seguito a quel referendum si sarebbero potute lasciare le cose cosi come stavano, la disciplina esisteva già, bastava quella generale valevole per tutti i cittadini, magistrati compresi, ma no, la Corte Costituzionale, con la sentenza 26/1987, spinse il legislatore ad introdurre una nuova regolamentazione della materia con la Legge 13 aprile 1988 n. 117 (legge Vassalli) che tutt’oggi costituisce “uno dei tratti caratterizzanti del Legislatore….ovvero che l’azione risarcitoria debba essere indirizzata nei confronti dello Stato” (c.cost. 49/22).

Il Referendum del 1987, in altri termini, aveva eliminato i limiti alla citazione diretta in giudizio del magistrato responsabile, ma tale volontà venne veicolata dalla Corte prima, e dal Legislatore poi, nella Legge Vassalli che introdusse un diverso limite alla responsabilità diretta, costituito dal parafulmine della legittimazione passiva esclusiva dello Stato.

Oggi il popolo ha chiesto di eliminare tale limite, ristabilendo l’effettività del vero senso referendario del 1987, ma questa volta gli è stato impedito dalla corte da guardia, che non vuole una pronuncia sull’abrogazione di norme ordinarie poste a presidio dei condizionamenti alla responsabilità dei magistrati introdotti con la Legge 117/1988.

Il quesito referendario vagliato dalla sentenza in commento, invero, chiedeva agli italiani di pronunciarsi sull’abrogazione di parti della Legge 117/1988 che limitano solo allo Stato la legittimazione passiva nel giudizio di responsabilità civile del magistrato – grazie alle quali egli gode di una speciale immunità civile in deroga alla disciplina ordinaria – e quindi di eliminare gli elementi “inquinanti” la volontà popolare espressa con il referendum del 1987 e, contestualmente, riespandere la regola generale preesistente di cui all’art. 28 Cost. e del DPR 3/57.

La Corte Costituzionale, nel difendere i privilegi di una categoria, con la sentenza n. 49/22 ha impedito al popolo istante di pronunciarsi, prevedendo evidentemente l’esito scontato delle urne alla luce delle nefandezze e degli scandali in cui la magistratura è stata coinvolta in questi anni.

Sarebbe stata la fine della irresponsabilità e della leggerezza, i magistrati avrebbero dovuto assumersi le conseguenze economiche delle proprie decisioni e del proprio operato.

Ovvio che ciò non è possibile, né tantomeno la Corte Costituzionale poteva permetterlo.

Il referendum così non è passato, e volete sapere il motivo?

Per la Corte l’abrogazione di parti della Legge 117/1988 avrebbe avuto “la finalità di introdurre una disciplina giuridica nuova, mai voluta dal legislatorevisto che la legge 117 del 1988 non prevede un’azione di tale natura”, in tal modo dimostrando la circolarità autocelebrativa del ragionamento, che pone a fattore condizionante il voto la stessa norma su cui si deve votare.

Il quesito referendario è stato ritenuto inammissibile perché il suo accoglimento avrebbe lasciato un “vuoto”, dimenticando però che dopo il referendum del 1987 si sarebbe creato lo stesso “vuoto” apparente, che all’epoca veniva colmato in fretta e furia con l’introduzione della Legge Vassalli in quanto, altrimenti, i magistrati sarebbero stati assoggettati alla legge come tutti, ossia a quella disciplina generale riguardante i dipendenti pubblici.

L’abrogazione di allora non aveva lasciato lo stesso “vuoto” che avrebbe lasciato oggi?

La Corte Costituzionale priva il popolo sovrano del diritto di voto perché sarebbe stato chiesto con una “manipolazione della struttura linguistica delle disposizioni” che non avrebbe consentito la “riespansione dei principi contenuti nei testi sottoposti ad abrogazione parziale”, come se la legge 117/1988 avesse rilevanza costituzionale o fosse un multiverso ex sè e non costituisse invece una parte derogatoria della disciplina generale in vigore.

Questo passaggio palesa clamorosamente la tautologia argomentativa della Corte Costituzionale che, per dichiarare inammissibile il referendum abrogativo di una norma eccezionale (quale è la legge Vassalli), adduceva il pericolo di un “vuoto” normativo impossibile da riempire con la disciplina di risulta della legge Vassalli parzialmente abrogata, ignorando del tutto – consapevolmente – il fatto che la materia è già regolata pienamente dall’art. 28 Cost. e dal DPR 3/57, che la regola introdotta dal Legislatore del 1988 non è rafforzata e che essa non è esattamente conforme alla volontà espressa dal referendum del 1987.

A ciò si aggiunga che la Corte Costituzionale (ed il Legislatore da quest’ultima eventualmente compulsato), potrebbe sempre intervenire – come peraltro accaduto dopo il referendum del 1987 – per introdurre quelle nuove “forme, termini e condizioni delle azioni” ritenute necessarie per derogare ad una materia che altrimenti sarebbe stata regolata dalla disciplina generale esistente.

Chiosando sul punto, la Corte Costituzionale ha vietato il referendum sostenendo l’intangibilità di una normativa eccezionale attraverso l’addebito di una “manipolazione creativa” del quesito che, a ben vedere, aveva natura meramente abrogativa, manipolando a sua volta il quesito referendario, destrutturandone la domanda con l’addebito di una malcelata finalità innovativa.

La Corte Costituzionale ha parametrato l’inammissibilità del quesito ad una serie di motivazioni paragiuridiche e più verosimilmente “etiche”, soprassedendo sul fattore che non avrebbe dovuto ignorare, ossia la volontà popolare – sia quella attuale sia quella espressa nel 1987 –, senza prendere atto del fatto che, a legislazione vigente (anche in seguito alla riforma Orlando del 2015), non esiste alcuna possibilità per il cittadino (salvo il caso di reati) di rivolgersi direttamente al magistrato per ottenere il risarcimento dei danni che questi gli può aver causato per un erroneo esercizio delle proprie funzioni.

Dalla lettura della sentenza 49/22 emerge chiaramente la manipolazione della logica della Corte Costituzionale, che utilizza gli argomenti a uso e consumo di una impostazione utilitaristica, avendo permesso in passato esattamente ciò che oggi vieta, ma che in passato riusciva a controllare grazie alla fiducia incondizionata nella giustizia da parte della cittadinanza che, avendone pagato le spese per oltre trent’anni, avrebbe voluto rivedere a causa del fallimento della normativa di favore verso danni e offese cagionati per responsabilità dolosa o gravemente colposa di giudici, il cui risarcimento dovrà continuare ad essere chiesto solo allo Stato, in giudizi contro un colosso decisi da altri magistrati suoi dipendenti, con buona pace della terzietà del giudice, della parità delle armi e del principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, magistrati compresi.

Di questi tempi nelle sentenze troviamo di tutto, ed in questa in commento emerge lo sforzo nel difendere giuridicamente un privilegio che nessuno ha, solo loro, solo i magistrati, che la difenderanno a costo di tradire anche se stessi, anche la legge, anche il popolo e anche logica interna delle proprie decisioni.

E non veniteci a dire che tutto ciò sarebbe previsto a garanzia di “serenità e indipendenza”, almeno non offendete l’intelligenza di quei pochi che ancora hanno il coraggio di parlare, perché è fin troppo evidente che alcuna correlazione sussiste tra la responsabilità per i danni causati a terzi con la serenità o l’autonomia del giudice, che deve rispettare la legge e deve esercitare le sue funzioni fornendo il servizio per cui viene lautamente pagato dalla collettività.

Oppure il giudice è libero di sbagliare impunemente, di procurare danni a terzi senza pagare, deve rimanere sereno di fronte ai propri errori, può non essere attento, perito, tempestivo, equanime ed è indipendente dalla legge cui tutti gli altri sono soggetti?

L’obiezione che la responsabilità diretta lede la serenità e l’autonomia del giudice è un argomento ipocrita e strumentale prim’ancora che giuridicamente e logicamente insussistente in quanto, da una parte, siamo pieni di orrori giudiziari e scandali del sistema anche senza la responsabilità diretta dei magistrati e, dall’altra, i fattori che minano l’autonomia, la serenità e l’indipendenza della magistratura dovrebbero essere cercati altrove, in primis nel meccanismo delle “porte girevoli” e, poi, dall’infestazione nella magistratura di soggetti di derivazione o caratura politica, che occupano posizioni apicali e strategiche all’interno dell’ordinamento giudiziario.

Scarica la sent. 49/22
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