Ricorso Prefetto contro multa mascherina – DPCM

PREFETTO DI ___

Racc a/r: Via ____

Via p.e.c.: ______

MEMORIA DIFENSIVA EX ART. 18 L. 689/81

Il sottoscritto _____, nato a ___ il ____, e residente in ____ alla Via _____, cod. fisc. _______

PER L’ANNULLAMENTO E ARCHIVIAZIONE

del verbale di accertamento di violazione amministrativa del ____ n. ___ redatto da agenti del Corpo di Polizia _____, con cui si contestava nell’immediatezza la violazione di cui all’art. 1 comma 2 DPCM 2.3.2021 perché il giorno ____ in ___ in Via ____ “(trascrivere esattamente la contestazione nel verbale)”, applicando la sanzione di €. ___ di cui all’art. 4 D.L. n19 del 25 marzo 2020 (Doc. 1).

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PREMESSO IN FATTO

  • Alle ore ____ del ____ l’odierno ricorrente, si trovava in ___ alla Via _____ mentre (descrivere il fatto, le circostanze di luogo e di tempo in cui è avvenuta la contestazione);
  • Nell’occasione il ricorrente aveva abbassato il dispositivo di protezione delle vie respiratorie perché nessun’altra persona (diversa da un familiare convivente) si trovava nelle immediate vicinanze, comunque a non meno di ___ metri, e solo perché era intento a fumare una sigaretta e bere una bibita;
  • (indicare modalità del controllo)
  • Gli operanti, a quel punto, contestavano all’odierno ricorrente la violazione dell’art. 1 comma 2 DPCM 2.3.201 elevando la sanzione pecuniaria di cui all’art. 4 D.L. n.19 del 25.3.2021 impugnata in questa sede;

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CONSIDERATO IN DIRITTO

1.      Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 2  marzo 2021  (pubblicato in GU Serie Generale n.52 del 02-03-2021 – Suppl. Ordinario n. 17) introduceva una disciplina articolata delle “misure urgenti” per fronteggiare l’emergenza epidemiologica, differenziando il territorio italiano in zone colorate e, per ognuna delle quali, prevedendo una disciplina graduata delle limitazioni, delle restrizioni, delle sospensioni, delle compressioni o delle concessioni dei diritti individuali e collettivi, delle attività private e sociali, dell’iniziativa economica e dell’erogazione dei servizi, il tutto in conseguenza della politica di contrasto all’epidemia che il decisore ha ritenuto di dover adottare per il contenimento del contagio dall’infezione da Covid- 19.

L’art. 1 del DPCM 2.3.2021 testualmente affermava:

  1. È fatto obbligo sull’intero territorio nazionale di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie e di indossarli nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto.
  2. Non vi è obbligo di indossare il dispositivo di protezione delle vie respiratorie quando, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantito in modo continuativo l’isolamento da persone non conviventi. Sono fatti salvi, in ogni caso, i protocolli e le linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché le linee guida per il consumo di cibi e bevande nei luoghi pubblici o aperti al pubblico.
  3. omissis
  4. omissis
  5. È fatto obbligo di mantenere una distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro..omissis
  6. omissis
  7. omissis

8.omissis

Inoltre l’art.57 del DPCM affermava che “le disposizioni del presente decreto si applicano dalla data del 6 marzo 2021, in sostituzione di quelle del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14 gennaio 2021, e sono efficaci fino al 6 aprile 2021”.

Il D.L. 1 aprile 2021, n. 44 recante “Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19”, convertito con modificazioni dalla L. 28 maggio 2021, n. 76 (in G.U. 31/05/2021, n. 128), all’art. 1 disponeva che “Dal 7 aprile al 30 aprile 2021, si applicano le misure di cui al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 2 marzo 2021, senza poi trovare più alcun ulteriore richiamo o proroga in provvedimenti normativi che abbiano fatto espresso riferimento alla vigenza successiva al 30.4.2021 degli obblighi cui all’art. 1 DPCM del 2.3.2021.

Sulla base di tale ricostruzione della disciplina dell’art. 1 DPCM 2.3.2021 (fondato sulla successione di atti normativi espressi) l’ultimo giorno di sua efficacia – in base a quanto previsto dal DL 44/21 conv. convertito con L. 76/21 – sarebbe stato il 30.4.2021, non potendosi ritenere determinato ed espresso un richiamo ad esso effettuato dal disposto del D.L. 52 del 22.4.2021 (c.d. decreto riaperture, allo stato non convertito) che non faceva alcun riferimento al DPCM 2.3.2021, nemmeno nel preambolo, limitandosi l’art. 1 ad affermare che “dal 1° maggio al 31 luglio 2021, si applicano le misure di cui al provvedimento adottato in data 2 marzo 2021”.

In questi termini, la sanzione opposta sarebbe illegittima in quanto violativa del principio di legalità di cui all’art. 1 L. 689/81 perché comminata il 15.5.2021, allorquando il DPCM 2.3.21 aveva cessato di avere efficacia al 30.4.2021 mentre, qualora si voglia ritenere pertinente il richiamo al “provvedimento del 2.3.21” ad opera del DL. 52/21, saremmo comunque in presenza della violazione dei principi di tassatività e determinatezza della sanzione amministrativa di cui all’art. 1 comma 2 L. 689/81, laddove non si menzionano “i casi” ed i tempi specifici per l’applicazione della sanzione.

Del resto, pur tralasciando il fatto che in data 2 marzo 2021 furono adottati diversi provvedimenti amministrativi, emerge lapalissiana l’inesistenza di una relazione normativa tra il DPCM 2.3.2021 ed “il provvedimento adottato in data 2 marzo 2021”, non risultando né preciso né determinato né tassativo l’accostamento, in mancanza dell’indicazione della natura, del contenuto, della fonte e dell’organo emittente “il provvedimento del 2 marzo 2021” il quale, peraltro, nella contestabile forzatura di una identificazione con il DPCM 2.3.2021 solo in virtù di una apparente coincidenza della data, incide sulle libertà fondamentali della persona, sui diritti costituzionali e sui principi di legalità, tassatività e determinatezza delle sanzioni amministrative.

Nemmeno potrebbe ipotizzarsi una efficacia sanate di una eventuale conversione in Legge del D.L. 52/21 che corregga o specifichi – come accaduto nel caso del DL 44/21 –  che quel “provvedimento del 2.3.21” si tratti in realtà del DPCM 2.3.21, posto che sul tema è già più volte intervenuta la Corte Costituzionale che ha negato l’efficacia “sanante” della legge di conversione di una disposizione nulla, invalida, illegittima o indeterminata  mentre ha previsto la possibilità di un correttivo in sede di conversione quale atto di normazione sostanziale pro futuro (cfr. C. cost., 27.1.1995, n. 29; C. cost., 25.11.2003, n. 341; C. cost., 13.1.2004, n. 6; C. cost., 22.6.2004, n. 178).

In accoglimento del presente motivo di doglianza di chiede annullarsi il verbale impugnato e la sanzione con esso irrogata.

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  1. In punto di gerarchia delle fonti, nel nostro ordinamento repubblicano, la funzione legislativa delegata è disciplinata dall’articolo 76 Cost., il quale prevede che “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi “, impedendo perciò anche alla Legge di conversione di Decreti Legge, la possibilità di delegare la produzione di norme generali e astratte ad altri organi diversi dal Governo, inteso nella sua composizione collegiale, e quindi con divieto anche per il solo Presidente del Consiglio dei Ministri di emanare norme equiparate a quelle emanate in atti aventi forza di legge.

In questi termini, solo un Decreto Legislativo – emanato in stretta osservanza di una Legge Delega – può contenere norme aventi forza di legge, ma giammai potrebbe farlo un atto amministrativo, come le ordinanze sindacali o regionali od il DPCM, ancorché emanato sulla base di una delega concessa da un Decreto-Legge tempestivamente convertito in legge.

Secondo l’autorevole dottrina costituzionale, la previsione di norme generali e astratte – soprattutto quando siano limitative di fondamentali diritti costituzionali – sarebbe contraria alla Costituzione se frutto di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (S. Cassese).

Con queste premesse, se il DPCM 2.3.21 è stato emanato in attuazione delle disposizioni di cui al decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, recante «Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19», a ben vedere il D.L. 19/21 convertito, agli art. 1 e 2, non esprimeva alcun obbligo, alcuna regola di condotta, alcuna imposizione di carattere cogente, bensì si limitava a “delegare” una funzione normativa al Presidente del Consiglio dei Ministri – che è organo amministrativo a tutti gli effetti – il quale sarebbe perciò stato insignito della possibilità “di adottare una o più misure tra quelle di cui al  comma  2” che avrebbero assunto la dignità e la forza di “Legge”  che la carta costituzionale richiede per poter incidere sui diritti primari delle persone.

Per quanto detto in precedenza, essendo la funzione legislativa riservata al Parlamento, il Governo non solo non potrebbe esercitarne le funzioni al di fuori di deleghe precise, ma nemmeno potrebbe utilizzare la decretazione di urgenza – che già di per sé costituisce forma eccezionale e necessitata di legislazione – per conferire ad un organo amministrativo (il Presidente del Consiglio dei Ministri) attribuzioni legislative riservate al Parlamento.

In conclusione il Decreto Legge non aveva alcun potere di attribuire ad un organo amministrativo l’esercizio di fonte generale e primaria del diritto – cui avrebbe potuto semmai demandare l’esecuzione di regole specifiche predisposte per urgenza e necessità – e invece, così facendo, il Governo ha travalicato le proprie attribuzioni e sconfinato in quelle del Parlamento, cui ha sottratto la funzione legislativa per trasferirla in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri, dislocando il meccanismo combinato “legge delega-decreto legislativo” di cui all’art. 76 Cost. dal duo “Parlamento-Governo” al duo “Governo-Presidente del Consiglio dei Ministri”.

Si tratta di una vera e propria distorsione della funzione legislativa, sovvertita con un abuso, un eccesso di potere e da un difetto assoluto di attribuzione, che rendono l’atto amministrativo, ossia il DPCM 2.3.21, nullo ai sensi e per gli effetti dell’art. 21septies della L. 241/1990.

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  • Anche solo questo motivo sarebbe sufficiente a confortare la conclusione di illegittimità del DPCM del 2.3.2021 e delle disposizioni contenute nell’art. 1 DPCM 2.3.2021 seppure tale norma, per come applicata dal verbale in questa sede impugnato, sarebbe ulteriormente illegittima per la violazione dei diritti soggettivi del ricorrente riconosciuti e tutelati dagli artt. 2-3-13 -32 Cost.

V’è da dire che l’obbligo principale imposto dalla norma in discussione sarebbe quello “di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie” al fine di poterli (e doverli) utilizzare, a prescindere se all’aperto od al chiuso, in base “alle caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto”, quando non sia garantito in modo continuativo l’isolamento da persone non conviventi (art. 1 comma 2 DPCM 2.3.21).

Va da sé che un obbligo in senso stretto, il cui adempimento sarebbe oggettivamente verificabile, si rinviene solo nel dovere di “avere con sé” la mascherina, mentre il conseguente dovere di indossarla o meno dipenderà da una valutazione rimessa alla capacità di discernimento di ciascuna persona, che dovrà valutare se, per la condizione dei luoghi (al chiuso o all’aperto) e dalle circostanze di fatto (prossimità con familiari non conviventi) sia garantito in maniera continuativa (quindi per il tempo in cui non si indossa il dispositivo) un “isolamento”, a sua volta definito da quel distanziamento di almeno 1 metro prescritto dal successivo comma 7 dell’art. 1 cit.

Per quanto risulta dal verbale opposto, la sanzione è stata irrogata non ai sensi del comma 1 dell’art. 1 DPCM 2.3.21 per la mancanza del possesso del prescritto d.p.i., quanto piuttosto in base al comma 2 come rimprovero ad una valutazione soggettiva del ricorrente in ordine alla presenza di quelle condizioni o circostanze di fatto che gli consentivano di non indossare la mascherina, comminate da un dall’agente accertatore che quelle condizioni o circostanze non teneva in alcuna considerazione.

In entrambe le ipotesi, però, il trasgressore dovrà essere mandato esente da responsabilità – ed in questo senso si conclude sul punto – in quanto, nel primo caso non vi sarebbe alcuna violazione da sanzionare mentre, nel secondo, la violazione sarebbe insussistente per mancanza dell’elemento soggettivo di cui all’art. 3 comma 2 L.689/81 giusta la ricorrenza dell’errore scusabile ed incolpevole sul fatto in cui, nella peggiore delle ipotesi, cadeva l’autore della condotta.

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  • A ciò si aggiunga che il ricorrente veniva sanzionato nel mentre stava esercitando attività personalissime, lecite e facoltà legittime riconosciute dall’ordinamento democratico del nostro ordinamento (di socializzazione; di circolazione; di comunicazione; realizzatrici della propria persona) per cui, in carenza di un certo o ragionevole pericolo attuale e concreto sussistente in quel frangente, non poteva esigersi dal trasgressore di rinunciare a fumare una sigaretta o effettuare una videochiamata a distanza di sicurezza da altri soggetti non conviventi, come pure non sarebbe esigibile che tali attività fossero compiute con la mascherina alzata a chiusura delle vie di ingestione o respiratorie.

Del resto, presupponendo) che sia possibile che le persone, con la mascherina abbassata, possano conversare, socializzare, consumare cibo o bevande, non è francamente comprensibile il motivo per il quale il ricorrente non ha potuto esercitare le stesse attività con la mascherina abbassata senza incorrere nella sanzione di €. 400,00.

La vicenda presenta chiari profili di eccesso di potere, se non addirittura abuso dei mezzi e del munus pubblico da parte degli accertatori, oltre che diviene fonte di disuguaglianza e irragionevolezza, soprattutto qualora la norma, già delicata nella sua applicazione per la genericità, l’indeterminatezza della casistica e per i diritti su cui incide, viene applicata in maniera arbitraria, illogica, prepotente e punitiva nei confronti di un cittadino che esercita i propri diritti e facoltà lecite (art. 2 e 3 Cost.), e che legittimamente interloquiva con l’operante per far comprendere la sussistenza delle condizioni e delle circostanze che gli consentivano di indossare la mascherina in quel frangente.

Per questi motivi la sanzione applicata sarebbe illegittima in quanto irrogata in presenza della causa di non punibilità della condotta ex art. 4 L.689/81 che giustifica “di chi ha commesso il fatto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima” e, per tale motivo, andrà annullata.

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  • Sotto altro profilo, la definizione del concetto di “isolamento” di cui al comma 2 dell’art. 1 DPCM 2.3.21 che consentirebbe al cittadino di non indossare la mascherina all’aperto, se non coincide con il “distanziamento” di 1 metro descritto dal successivo comma 7 art. 1 cit., rimarrebbe privo di contenuto, non trovando alcuna descrizione in altre norme definitorie e lascerebbe così all’arbitrio del singolo – privato o pubblico che sia – la prerogativa di attribuzione dei connotati oggettivi e sostanziali ad una esimente che condiziona il rispetto o l’inosservanza di un obbligo.

Non sarebbe pertanto possibile riconoscere alla sensibilità individuale dell’agente operante un “potere costitutivo” anziché la tipica “funzione ricognitiva” dell’illecito amministrativo, posto che altrimenti avrebbe l’arbitrio di intervenire, giudicare e incidere sull’esercizio dei diritti personalissimi e di rilevanza costituzionale delle persone, senza considerare che il dovere di indossare un dispositivo di protezione individuale all’aperto, come nel caso di specie, potrebbe essere preteso da un agente di polizia nella contestuale vigenza di un sistema di norme penali che prevedono l’esatto contrario (art. 85 TUPS e art. 5 L.152/75).

Infatti l’art. 85 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931) vieta di “comparire mascherato in luogo pubblico. Il contravventore è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000”, mentre l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975 vieta “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo…il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro” e, perciò, risulta evidente che, oltre gli indiscutibili profili in ordine alle limitazioni della libertà personale imposte da un atto amministrativo quale è il DPCM 2.3.21, la vigenza di Leggi penali che impongono il divieto di travisamento del volto impediscono di ritenere legittimo un obbligo imposto da una fonte amministrativa la cui osservanza comporta l’automatica violazione di una legge penale sicché, nel rispetto della gerarchia delle fonti e del principio di autoconservazione nemo tenetur se detergere, l’osservanza della regola dell’art. 1 DPCM 2.3.21 non sarebbe cogente ed esigibile nei confronti del cittadino che non può essere tenuto a commettere un reato per obbedire ad una prescrizione di fonte amministrativa.

Non vertendosi in ipotesi di specialità ex art. 9 L. 689/81 per la diversità dei fatti antitetici sottesi (in questo caso siamo proprio di fronte ad un paradosso giuridico, dove il travisamento del volto costituisce reato mentre la condotta contraria costituisce un illecito amministrativo), la sanzione impugnata andrà annullata per illegittimità dell’ordine di indossare la mascherina proveniente da fonte amministrativa subordinata alla legge penale – che invece sanziona l’ordine imposto dal DPCM – da considerarsi ulteriormente illegittimo ex art. 28 Cost. nella misura in cui il p.u. intende dare esecuzione sfruttando il metus della sanzione.

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  • Da un punto di vista di legittimità costituzionale, l’art. 1 DPCM 2.3.21 – stabilendo una imposizione che incide sulla libertà personale dell’individuo che viene costretto ad indossare un dispositivo sanitario – configura un vero e proprio limite alla libertà personale di disporre del proprio corpo nel tempo, nel modo e nello spazio, incidente anche sulla correlata libertà di sottoporsi ad un trattamento sanitario (quale è quello di indossare un dispositivo di protezione individuale in condizioni nemmeno ben definite ma a semplice ordine dell’Autorità di polizia), che finisce con il divenire una condizione restrittiva della libertà personale senza una copertura legislativa (riserva di legge) e senza un presupposto provvedimento motivato del Giudice (riserva di giurisdizione), come richiesto chiaramente dall’art. 13 Cost.

Invero, la Corte Costituzionale ha ritenuto misura restrittiva della libertà personale un analogo (a quello di indossare la mascherina) obbligo del c.d. “prelievo ematico” (Sentenza n. 238 del 1996), come lo sarebbe anche l’obbligo di presentazione presso l’autorità di PG in concomitanza con lo svolgimento delle manifestazioni sportive in caso di applicazione del DASPO (tanto da richiedere una convalida del Giudice in termini ristrettissimi), come anche l’accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero che portava alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale della disciplina legislativa che non prevedeva il controllo del Giudice ordinario sulla misura, controllo poi introdotto dal legislatore in esecuzione della decisione della Corte Costituzionale (Tribunale Reggio Emilia sent. n. 54 del 27.1.2021).

Applicando tali principi alla materia che ci occupa, la disciplina che impone di indossare obbligatoriamente un dispositivo sanitario (lasciando di fatto un arbitrio all’organo accertatore di pretenderne l’adempimento) impatta ugualmente sulla libertà personale e, perciò, dovrebbe prevedere un controllo tempestivo del Giudice in merito alla sussistenza dei presupposti applicativi previsti tassativamente dalla legge sicché, sotto il profilo dell’art. 13 Cost., neppure una legge ordinaria sarebbe sufficiente a legittimare il dovere generalizzato imposto a tutti i cittadini di sottoporsi ad un trattamento sanitario in assenza di un vaglio giurisdizionale se non si vuol violare il ricordato art. 13 Cost.

Nemmeno potrebbe ipotizzarsi la conformità alla costituzione dell’obbligo di indossare la mascherina previsto dal DPCM in relazione alle limitazioni della libertà di circolazione ex art. 16 Cost. perché, come ha chiarito la Corte Costituzionale, la libertà di circolazione riguarda i limiti di accesso a determinati luoghi od il divieto di accedere ad alcune zone circoscritte che sarebbero infette o pericolose, ma giammai potrebbe comportare un obbligo di sottoporsi ad un trattamento sanitario (Corte Cost., n. 68 del 1964) senza confondere la libertà di circolazione con la libertà personale; in sostanza i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici il cui accesso può essere precluso o compromesso, mentre invece l’obbligo in questione non riguarda i luoghi, ma le persone, ed allora l’obbligo si configura come limitazione della libertà personale e non di circolazione.

Qualora invece si ritenga di sussumere l’obbligo de quo nell’alveo dell’art. 32 comma 2 Cost., sarebbe certamente sufficiente una norma di Legge che lo imponga, ma è necessario però che sia una Legge e non un surrogato di essa.

In spregio a quanto sopra il DPCM 2.3.21 impone alle persone ad indossare un dispositivo sanitario in assenza di un effettivo e ben delineato dovere previsto dalla Legge, posto che l’obbligo di indossare tale apparecchio e, quindi, di sottoporsi alla relativa “prestazione”, può essere previsto solo da una fonte normativa di natura primaria per esplicita volontà costituzionale che, di questi tempi, sembra invece essere abbandonata e sacrificata alla mercè della tutela (asincrona; cieca e prepotente) di un diritto alla “salute” divenuto tiranno e sovraordinato a tutto e tutti.

Il DPCM, come detto, non è equiparabile alla Legge, sicchè la mancanza di una fonte legale che abbia forza e capacità di comprimere un diritto costituzionalmente riconosciuto e tutelato dovrà (o dovrebbe) portare alla inevitabile censura di una limitazione operata da norme secondarie e non aventi la medesima forza, per cui la violazione contestata con il verbale impugnato con la relativa sanzione devono considerarsi illegittime e andranno annullati.

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Per quanto sopra visto e considerato il ricorrente

CHIEDE

All’Illustrissimo Prefetto di ___ adito di archiviare ex art. 18 L. 689/1981 il verbale del ___ n. ___in questa sede impugnato, e, per l’effetto, annullare la sanzione irrogata.

Si offrono in copia i seguenti documenti in copia:

1) Verbale del ___ n. ___;

2) Rappresentazione fotografica di Via ___;

3) (altri documenti).

Luogo e data

Firma____

 

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