Mai come in questo ultimo periodo il dissenso e la critica ad un pensiero dominate o comunemente sentito come la corretta espressione della nuova realtà, è divenuta l’occasione per emarginare, allontanare, discriminare o “bannare”.
Chi di noi ha assunto pubblicamente posizioni contrarie – o anche solo scettiche – contro le più delicate azioni del governo, del main stream o della nuova cultura giuridica nostrana è stato in qualche modo censurato o discriminato.
Ad esempio noi come Avvocati Liberi lo siamo stati più d’una volta, non solo nei Tribunali – dove veniamo additati come gli avvocati no vax o negazionisti – ma addirittura nei social media ove, come gruppo di giuristi liberi, ci sono state oscurate pubblicazioni aventi ad oggetto l’analisi dei provvedimenti normativi e giudiziari emessi in materia di pandemia.
Fuori da questi temi, però, il diritto continua ad esistere, la legalità e la tutela sopravvivono, ma solo fin tanto che non impattino sulla struttura del regime draconiano (l’assonanza non è di poco conto), ed a condizione che la decisione del processo non abbia ripercussioni sulla tenuta del sistema pandemico.
Così, ad esempio, la Corte di appello dell’Aquila con la sentenza 1659/2021 ha ribadito che l’ingiusta cancellazione di un post e di un account Facebook vada risarcita all’utente bannato “a causa della sospensione delle proprie relazioni sociali”.
Nella specie era accaduto che un utente veniva escluso dall’utilizzo della sua pagina Facebook per oltre quattro mesi per violazione degli «standard della comunità» in quanto aveva pubblicato alcune foto di Benito Mussolini, accompagnate da commenti che evocavano la sua appartenenza politica (analoga tutela era stata concessa dal Tribunale di Roma in via d’urgenza anche all’account Facebook dell’associazione Casapaound)..
Per tale sospensione il Tribunale in primo grado aveva disposto a carico del social network un risarcimento di 15mila euro a titolo di danno morale, tanto che Facebook aveva pensato bene di impugnare credendo di avere gioco facile visto che il tema era l’oscuramento di una propaganda fascista, senza pensare che, così facendo, offriva l’occasione ai giudici d’appello per fare il punto sui dritti e i doveri di chi si iscrive a un social network.
Quando ci si iscrive a una community virtuale, si stipula un contratto per adesione mediante il ricorso a moduli online predisposti unilateralmente dal social network alle cui clausole si applica la legge italiana se l’utente non agisce per finalità di impresa o commerciale.
Con l’adesione al contratto l’utente accede ad un servizio di rete che gli consente di entrare in contatto con altri utenti in tutto il mondo, condividendo informazioni, documenti e svolgendo altresì discussioni a mezzo di messaggi pubblici oppure privati, comunque fruibili da una serie indeterminata o selezionata di soggetti.
Dal canto suo, il gestore (nella specie Facebook ma il discorso vale anche per le condizioni d’uso di Youtube o simili) anziché richiedere all’utente un pagamento per l’utilizzo dei servizi contrattuali, riceve una remunerazione da parte di aziende e organizzazioni terze per mostrare agli utenti inserzioni relative ai loro prodotti e servizi.
“Utilizzando i Prodotti di Facebook, l’utente accetta che Facebook possa mostrargli inserzioni che Facebook ritiene pertinenti per l’utente e per i suoi interessi. Facebook usa i dati personali dell’utente per aiutare a determinare quali inserzioni mostrare all’utente” (tratto dalle condizioni d’uso del contratto di adesione a facebook).
Il gestore Facebook, dunque, si impegnerebbe a fornire un servizio a titolo gratuito, traendo comunque vantaggio economico dalle inserzioni pubblicitarie, anche mediante l’utilizzo di dati personali degli utenti che accettano l’inserimento di spazi pubblicitari calibrati sugli specifici interessi dei loro destinatari, trattandosi quindi di un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, dove il “prezzo” pagato dall’utente è rappresentato dalla concessione per fini commerciali dei propri dati personali.
Utilizzando i servizi del contratto, l’utente accetta che il gestore gli mostri inserzioni pubblicitarie pertinenti con la profilazione effettuata dallo stesso gestore attraverso il trattamento dei “metadati” personali che acquisiscono perciò un valore economico, tanto che la dichiarata gratuità della prestazione (da parte di Facebook) non porta alla conclusione che l’utente, consentendo l’utilizzo e la diffusione dei propri messaggi e contenuti, fornisca una prestazione che non sia, anch’essa, suscettibile di valutazione economica, perché non può dubitarsi che l’utente offra al gestore, con atto negoziale dispositivo, l’autorizzazione a utilizzare i propri dati personali a fini commerciali sicché, a fronte dell’apparente gratuità del servizio, sussiste il requisito della patrimonialità della prestazione oggetto dell’obbligazione ex art. 1174 c.c. (Trib. Bologna 10.3.2021; da ultimo anche Tar Lazio, sez. I, 10 gennaio 2020, n. 260).
Anche l’art. 3, primo comma seconda parte della Direttiva 2019/770/UE, “relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali” (in vigore dal maggio 2019, termine per misure di implementazione da parte degli Stati membri: 1° luglio 2021) dispone che “la presente direttiva si applica altresì nel caso in cui l’operatore economico fornisce o si impegna a fornire contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si impegna a fornire dati personali all’operatore economico” e, perciò, posto il carattere oneroso del rapporto negoziale tra le parti, e posto che il contratto è fondato su un evidente sinallagma, l’attività censoria del gestore impatterebbe sulla libera espressione del pensiero garantito dall’art. 21 della Carta Costituzionale e dalle convenzioni internazionali.
È però vero che ogni social network può convenire, con l’adesione dell’utente, l’attribuzione al gestore di poteri di rimozione dei post o di sospensione degli account che non siano in linea con la policy della piattaforma, ma la valutazione della conformità delle pubblicazioni con le dette policy dovrà essere rigorosa e sempre nel rispetto di quel limite assoluto della prevalenza dei diritti costituzionalmente garantiti, che non potrebbero essere compressi dal sindacato di un privato (che trae pure vantaggio dall’adesione dell’utente).
I gestori di tali piattaforme non sono “editori”, sicché non avrebbero alcuna legittimazione ad imporre agli iscritti l’allineamento ad una ideologia qualsiasi, o escludere tutto ciò che sia ritenuto disallineato; questo è il motivo per il quale nella vicenda commentata (e anche nel precedente di Casapound), seppure non vi era stato alcun dubbio che i principi ispiratori del regime fascista non fossero valori condivisi dalle policy interne, è stata comunque apprestata la tutela al valore costituzionale del pluralismo politico e alla libertà di pensiero manifestato mediante la propaganda di un regime ripudiato dalla storia, per cui francamente non si comprende come ciò possa valere per il fascismo ma non nei confronti del pluralismo e del dibattito su tematiche pandemiche sensibili.
Pensiamoci.
Il trasferimento delle principali attività umane in rete – dal lavoro all’istruzione, dal commercio al libero scambio delle idee, dalla cultura alla riunione o alla interazione tra individui – ha comportato l’espansione smisurata dei potentati “big tech” nella gestione delle piattaforme social ove, di fatto, esercitano una posizione dominante con il controllo orwelliano sul dibattito globale, orientando la discussione con lo strumento della censura, del discredito e degli oscuramenti di contenuti, opinioni e fatti non conformi ai desiderata delle politiche nazionali o delle volontà dei grandi azionisti, opponendo agli utenti una tanto ipocrita quanto indefinita violazione presunta di “regole di community”, “policy” o “contratti di licenza” di tale vaghezza ed elasticità da consentire ogni genere di abuso.